C'era una
volta un uomo che viveva in una grande metropoli. Ogni sera si recava allo
stesso ristorante e si sedeva al medesimo tavolo. Si sentiva molto solo. Ma un
giorno vide sul suo tavolo una bellissima rosa, e fu pervaso da una sensazione
di gioia. E ogni giorno tornava, e durante il pasto rimirava quella rosa. A
volte era triste, altre felice, altre ancora indifferente o irritato. Ma benché
il suo stato d'animo mutasse e il tempo passasse, notò che la rosa era sempre
la stessa. Com'era possibile? Non se ne capacitava.
Poi, con tanto riguardo, la toccò - non aveva mai osato farlo,
prima - . Ma sentendo quant'erano rigidi i margini delle foglie, si rese conto
che la rosa non era viva: era finta. Allora, infuriato, la strappò da quel vaso
senz'acqua e la fece a pezzi. Poi pianse e si sentì più solo che mai.
Noi non siamo fatti per amare cose immortali. Solo ciò che è
insostituibile, unico e mortale può toccare la nostra sensibilità umana più
profonda ed esser fonte di speranza e consolazione. Dio divenne amabile solo
quando divenne mortale. Egli divenne il nostro Salvatore perché la sua
mortalità non fu fatale ma fu l'accesso alla speranza.
Abbiamo visto molti andarsene. Migliaia se ne vanno ogni giorno:
grandi personaggi, cari amici e innumerevoli altri, sconosciuti ma parte delle
nostre vite. Noi li abbiamo amati proprio perché erano insostituibili, perché
erano mortali. Forse, alla luce del commiato di Cristo possiamo iniziare a
capire che anche quei giorni possono essere giorni di speranza, che aprono la strada
allo Spirito, perché venga, apra le porte sprangate delle nostre paure e ci
conduca alla piena libertà e verità. E alla gratitudine. Il protagonista e
narratore del romanzo Il mio nome è Asher Lev scopre qualcosa
di simile. Sin da piccolo aveva amato disegnare e dipingere.
E disegnai anche il modo in cui mio padre una volta aveva guardato
un uccellino che giaceva su un fianco contro il cordolo del marciapiede, vicino
a casa nostra. Era Shabbos (la festività ebraica del Sabato) stavamo tornando
dalla sinagoga.
- «E' morto, papà?», avevo sei anni, e mi mancava il coraggio di
guardarlo.
- «Sì», lo sentii dire triste e assorto.
- «Perché è morto?»
- «Tutto ciò che vive deve morire».
- «Tutto?».
- «Sì».
- «Anche tu, papà? E la mamma?»
- «Sì».
- «E io?».
- «Sì, disse. E poi soggiunse [...]: «Ma possa essere solo al
termine di una vita lunga e piena, Asher caro».
Non riuscivo a farmene una ragione. Mi imposi di guardare
l'uccellino. Dunque, tutto ciò che vive un giorno sarebbe stato immobile come
quella bestiola?
- «Perché?» domandai.
- «E' così che il Ribbono Shel Olom (Signore dell'Universo) ha
creato il Suo mondo, Asher».
- «Perché?».
- «Così la vita sarebbe stata preziosa, Asher. Qualcosa che è tuo
per sempre non è mai prezioso».
(da "Muta il mio Dolore in Danza" di Henri
Nouwen - Edizioni S. Paolo)